Giuseppe Depergola è sopravvissuto ad un arresto cardiaco avvenuto nel 2018 durante una partita di calcio. Sposato e padre di due figli, ha raccontato alla nostra giornalista Valentina Colmi la sua incredibile storia.
Quando penso al significato di esserci, di esistere, penso alla canzone di Vasco, “Un senso”: “Voglio trovare un senso a questa sera/ Anche se questa sera un senso non ce l’ha/ Voglio trovare un senso a questa vita/ Anche se questa vita un senso non ce l’ha.
Giuseppe Depergola oggi porta a scuola i suoi figli, gioisce e si arrabbia per l’Inter, ama sua moglie Cinzia, va al lavoro. Tutte azioni normali, quasi scontate, che hanno rischiato di essere spazzate via una sera di primavera, paradossalmente facendo la cosa che più amava: giocare a calcio.
Nel 2018, a 43 anni, il suo cuore ha smesso di battere – arresto cardiaco hanno detto i medici – così, all’improvviso, senza una spiegazione. E’ un sopravvissuto: ha provato cosa significa morire per un attimo e tornare nuovamente alla vita. Tutto questo ha un senso? “Sai che cosa penso/ Che se non ha un senso/ Domani arriverà/ Domani arriverà lo stesso”. E il domani è arrivato da 1460 giorni. Forse per superare l’imprevedibilità dei nostri giorni non ci sono risposte, l’unica cosa da fare è darsi da fare per esserci, appunto, per non lasciarsi vivere, consapevoli che – anche se non tutte le storie hanno il lieto fine – qualche volta sì.
Ecco quello che ci ha raccontato.
Giuseppe, com’era la tua vita prima del 16 maggio 2018?
La mia vita è sempre stata la vita di un “milanese”: in affanno, sempre in ritardo, sempre di corsa. In quel momento facevo l’elettricista, non era un lavoro stressante, ma pericoloso visto che potevo salire anche 10 metri con la scala.
Ti ricordi che cosa hai fatto durante quella giornata?
Di quella giornata mi ricordo esattamente tutto fino alle sette di sera; dovevo andare a giocare a calcio alle otto e mezzo, ma poi i ricordi si interrompono fino alla mattina successiva, quando mi sono svegliato. L’unica cosa che posseggo di quella sera è una fotografia che mi hanno scattato fuori dal campo prima di entrare: quando la guardo però è come se non fossi stato presente, perché non mi ricordo di averla fatta. Guardandola è molto strano da raccontare perché appunto non mi sembra di averla mai scattata.
Hai avuto dei segnali di quello che ti sarebbe successo oppure è arrivato in maniera inaspettata?
Non ho avuto nessun segnale, assolutamente niente. Chi che era in campo con me ha detto che sono stato esattamente lo stesso che conoscevano: quello che correva da una parte all’altra e gridava per avere la palla, questo almeno fino a mezz’ora di gioco, quando mi è capitato quello che è poi è accaduto.
So che hai due angeli custodi che ti ha salvato la vita, come hanno fatto?
Il primo era un mio amico, Alex Grassi, che quella sera lì giocava contro di me e che negli anni precedenti era stato il mio massaggiatore nella Rivanazzanese, la squadra in cui giocavo. Lui è specializzato in fisioterapia, quindi sono stato fortunato anche in questo quella sera (ride ndr). Dopo mezz’ora di gioco io ho calciato in porta, la palla è uscita, lui si è girato verso di me per prendermi in giro e io gli sono crollato davanti. Aveva capito che era qualcosa di strano, non un semplice svenimento o un infortunio alla caviglia, ed è intervenuto: mi ha tirato fuori la lingua, perché attorcigliandosi mi avrebbe soffocato. In campo c’erano altri due fisioterapisti, ma non sono riusciti ad intervenire: io però non li colpevolizzo, non serviva, posso capirli. Ha tentato di farmi una respirazione bocca a bocca e poi ha iniziato col massaggio cardiaco; così aveva recuperato il battito sentendolo nel polso, però secondo lui c’è stato un secondo arresto che ha recuperato ancora con il massaggio. Poi Giuseppe Porrati, il custode del campo e altro mio angelo, è arrivato con il defibrillatore: mi hanno raccontato che quando il defibrillatore ha dato la scossa, il mio corpo si è sollevato di mezzo metro per poi tornare giù. Da lì, ho cominciato a respirare di nuovo affannosamente: nel frattempo hanno chiamato l’ambulanza.
Hai dei ricordi di quei momenti?
Mi è accaduta una cosa in quei momenti che secondo me non è un sogno, perché mi sembrava troppo vero. L’ho raccontato subito a Cinzia, mia moglie, la mattina dopo: ero vestito da calcio esattamente come quella sera e stavo camminando su una specie di strada bianca; tutto era bianco, non erano esattamente le nuvole, forse del fumo bianco, luminosissimo. In lontananza ho visto un portone ovale di legno vecchio, pieno di grossi chiodi, con due maniglie grossissime. Mi sono avvicinato, ma c’era solo il portone, non il muro che lo reggeva: se io gli fossi girato attorno, sarei entrato. Mi sono fermato davanti e la porta si è aperta, cigolando come nei film dell’orrore. Davanti a me c’era una persona, di cui non mi ricordo il volto: aveva però la barba lunga bianca quasi gialla, un camice bianco lunghissimo. Mi sembrava molto gentile, una persona contenta di vedermi; mi ha fatto il gesto con il braccio invitandomi ad entrare e mi ha detto “Prego”. Io sono stato sul punto di farlo, poi mi sono fermato e gli ho detto: “No, no io non vengo: non ho tempo”. Questa persona allora mi ha sorriso e mi ha detto “Va bene” e ha richiuso la porta. Allora mi sono girato e sono tornato da dove sono venuto e la cosa strana è che mi sono visto dal di fuori, cioè ho visto la mia schiena che si allontanava. Era come se una parte fosse rimasta vicino al portone e un’altra parte tornasse indietro da dove ero arrivato.
Dopo questo, mi sono svegliato in piena notte, in terapia intensiva, ma non mi ricordavo del perché fossi lì, anche se avevo capito che non era un posto bello. Allora ho cercato di fare mente locale: sono riuscito a risalire fino alle sette di sera, a quando c’era l’idraulico a casa mia e dentro di me gli dicevo “muoviti che devo andare a giocare”. Ho pensato di aver avuto un incidente e di aver sbattuto la testa: niente, non c’erano lividi; poi ho iniziato a pensare che fossi caduto dalla scala al lavoro, che avessi perso la memoria. In quel momento mi sono spaventato, perché non avevo alcun dolore e dicevo quasi ad alta voce “muovi la gamba destra” e la muovevo; “muovi la gamba sinistra” e la muovevo; muovevo anche le braccia ed era tutto a posto. Poi ho iniziato a pensare a mia moglie, ai miei figli, a mia mamma, a mio papà, a mia suocera, a mio fratello: mi ricordavo di tutti, ma appunto mi mancava quel lasso di tempo lì.
Cosa ti ricordi dei giorni in ospedale?
Mi ricordo tutto, da quando mi sono svegliato. Mi sentivo bene e avevo fretta di rivedere soprattutto mia moglie e i bambini, che all’epoca avevano 5 e 1 anno. Per riabbracciare i miei figli ho dovuto però aspettare 15 giorni, uscito dalla terapia intensiva.
Come è stata la ripresa?
E’ stata lunga, perché appunto stavo bene e non capivo quello che mi dicevano i medici. Io ho sempre giocato, quindi ogni anno facevo le visite mediche agonistiche, mi sono sempre comportato – anche se non lo ero – come un giocatore professionista. Non ho mai fumato una sigaretta, non bevevo alcol, non mangiavo fritto, il mio piatto preferito – ancora adesso – è mozzarella e pomodoro, non ho precedenti in famiglia e non riuscivo a capire come mai mi fosse successa una cosa del genere. Io ero sempre sotto controllo e non hanno mai riscontrato niente.
Mi dava fastidio stare in ospedale, anzi i medici mi sgridavano perché mi dicevano che stavo troppo in piedi. Sono stato un mese all’ospedale di Alessandria – due settimane di terapia intensiva e poi cardiologia – e ancora un mese di riabilitazione. Prima di riprendere il lavoro sono passati quattro mesi e mezzo, quindi anche poco perché non ne potevo più di stare a casa.
Cosa ti ha insegnato questa esperienza, magari vedi la vita in maniera diversa?
Vorrei dirti di sì, dovrebbe essere scontato, ma io penso di no perché me lo dicono tutti. Quando sono uscito dall’ospedale i medici mi hanno detto che avrei dovuto cambiare il mio modo di vivere, che avrei dovuto tranquillizzarmi. Secondo me non è cambiato, anche perché con due bambini tante volte non riesci ad essere calmo. Christian, mio figlio maggiore, ha anche iniziato a giocare a calcio: come facevo a dirgli di no? Lui ha voluto giocare nella mia stessa società, io non gli ho mai imposto niente, anzi non volevo neanche che giocasse a calcio così non io non sarei tornato sui campi.
C’è un messaggio che vuoi condividere con chi forse questa vita la dà per scontata?
Non so se è giusto, ma io da quell’esperienza lì ho capito che il destino non esiste. Per me il mio giorno doveva essere il 16 maggio, solo che qualcuno nella parte terrena, più qualcuno che mi ha voluto bene e che non c’è più ha unito le forze e ha fatto in modo che io tornassi qui. Abbiamo battuto il destino, ogni anno dico che il mio compleanno non è a settembre, ma a maggio: quindi quest’anno ho festeggiato 4 anni (ride, ndr).
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