Il nuovo decreto Sostegni ridefinisce i criteri per andare in pensione a 62 anni anziché 67, o con 37 anni di contributi anziché 42 e 10 mesi.
Il contratto di espansione di cui tanto si sente parlare in queste ore è l’arma del governo contro una possibile ondata di licenziamenti dopo lo “sblocco” degli stessi a partire dal prossimo 1° luglio. Si tratta di una modalità di “scivolo aziendale” già esistente ma finora poco usata: la novità prevista dal “pacchetto lavoro” del Decreto Sostegni bis sta nell’ampiamento della platea delle imprese (sarà fruibile da quelle con oltre 100 dipendenti e non più 250) con la possibilità di anticipare il pensionamento per quei lavoratori – secondo le stime quest’anno potrebbero essere 27mila – ai quali mancano fino a 5 anni per congedarsi dal lavoro.
Via alla pensione anticipata con lo scivolo aziendale
Nel 2021 molti lavoratori avranno dunque la possibilità di anticipare l’uscita di 5 anni rispetto alla vecchiaia dei 67 anni o ai contributi necessari per arrivare a 42 anni e 10 mesi dell’anticipata Fornero. Il governo Draghi punterebbe sull’agevolazione all’esodo per favorire le uscite: in attesa di ulteriori novità, le domande dovranno pervenire all’Inps entro il 30 novembre prossimo. ma con il decreto in arrivo la platea dei beneficiari si prevede in forte allargamento.
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Riducendo la soglia dimensionale dei datori di lavoro a 100 dipendenti, infatti, potrebbero essere fino a 15mila le imprese interessate. E continuano gli incontri per migliorare lo strumento che potrebbe risultare decisivo sia per il dopo quota 100 e la riforma delle pensioni, sia per far fronte alle necessità occupazionali delle aziende nell’emergenza Coronavirus e nel periodo successivo allo sblocco dei licenziamenti collettivi.
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Secondo una simulazione dello Studio De Fusco & Partners, considerando una retribuzione annua lorda di 30mila euro (1.650 euro netti mensili), rispetto all’assegno pensionistico “pieno”, con il prepensionamento si perdono in media 120 euro al mese (la forbice è compresa tra 40 e 160 euro, a seconda che l’uscita avvenga a 1 o 5 anni dalla maturazione dei requisiti pensionistici). Per la fascia di retribuzione lorda annua di 40mila euro (2.050 mensili netti), rispetto alla pensione piena si perdono mediamente 145 euro (la forbice in questo caso è compresa tra 60 euro e 180 euro).
I sindacati, tuttavia, per ora si mostrano critici, temendo una valanga di licenziamenti non controbilanciata da un’adeguata protezione, complici gli elevati costi per l’azienda previsti dal meccanismo. “Se non si modificano i criteri di accesso – ha spiegato Roberto Ghiselli, segretario confederale Cgil – si rischia il flop. Per le aziende pagare l’importo della pensione maturata per 5 anni recuperando l’importo della Naspi per 2 anni è troppo costoso. Ma se l’accordo è solo per 2 non conviene al lavoratore che preferirà andare in Naspi perché almeno avrà i contributi”.