Il femminicidio di Alessandra Maffezzoli è l’ennesima testimonianza di come la violenza sulle donne sia un fenomeno drammaticamente attuale.
Negli ultimi anni l’attenzione del governo e dei media sul drammatico fenomeno del femminicidio si è innalzata a livello di emergenza massima. I dati sul numero di donne che annualmente vengono uccise nel nostro Paese per delitti passionali è talmente elevato da non poter essere ignorato. Il lavoro svolto finora è solo l’inizio di un processo di educazione e sensibilizzazione della popolazione da un lato e di protezione e prevenzione dei crimini dall’altro.
Il primo obbiettivo della campagna di sensibilizzazione avviata dal governo attraverso i media è quello di fare capire agli uomini che l’amore non è possesso e che avere una relazione con una donna non significa possedere quella persona. Bisogna abbattere la convinzione diffusa che il partner diventi qualcosa di proprietà e sostituirla con la consapevolezza che le relazioni si basano sul reciproco rispetto e sulla reciproca scelta di prendersi e costruire qualcosa insieme. Un progetto che, come tutti gli altri della vita, può essere sciolto in qualsiasi momento e bisogna accettarlo.
La prevenzione di questi crimini è basata anche sull’avvertire le donne, fare capire loro che le forze dell’ordine sono dalla loro parte e che possono proteggerle. La prima cosa che si cerca di fare capire alle donne vittime di violenza e a rischio di vita è che bisogna denunciare e tenersi lontane dall’uomo che minaccia la loro incolumità. La seconda cosa è fare capire alle donne a rischio è che un soggetto violento, sebbene si mostri pentito, non cambia atteggiamento e prima o poi ricade negli stessi comportamenti.
Alessandra Maffezzoli, il dramma di una donna che lo Stato non è riuscito a salvare
Cosa succede se la donna si fida delle istituzioni ma queste non sono in grado di salvarla? E soprattutto come può fidarsi se nonostante le denunce ripetute questo non serve a sottrarla dall’incubo che sta vivendo? Questo è ciò che ci si chiede dopo quanto accaduto ad Alessandra Maffezzoli nel 2016 ed ogni volta che dinamiche del genere si ripetono, senza che gli strumenti a disposizione delle donne siano sufficienti per salvarle da un epilogo tragico.
La donna era stata lasciata dal compagno, il padre dei suoi figli, senza nessun preavviso. Dopo anni ha conosciuto un uomo, Jean Luca Falchetto, ed è stato subito amore. Inizialmente la nuova relazione sembrava perfetta, ma presto l’uomo ha cominciato a mostrare segni di gelosia e possessività, ad ossessionarla e lei ha deciso di lasciarlo. Alessandra aveva compreso che l’uomo era instabile e che continuando la relazione con lui si sarebbe cacciata in un inferno.
Ciò che non poteva immaginare era che l’uomo non accettasse la sua decisione e che avrebbe comunque reso la sua vita impossibile. Alessandra ha cercato in tutti i modi di fargli capire che non ci sarebbero stati i presupposti per continuare la relazione, di farsene una ragione, ma lui non ha mai desistito e lei si è vista costretta a denunciarlo più volte ai Carabinieri.
L’ennesimo rifiuto e il femminicidio
Le ripetute denunce si sono tradotte in un ordine restrittivo ai danni dell’uomo, ma Jean Luca non si dava per vinto e seguiva Alessandra in ogni spostamento, cercando il momento in cui rimaneva sola per andarle a parlare e cercare di convincerla a dargli un’altra possibilità. L’ultima volta che ci ha provato è stato l’1 giugno del 2016. Alessandra anche in quella situazione è stata irremovibile e lui, compreso che non aveva chance, ha perso completamente il controllo e l’ha uccisa colpendola con un vaso in testa.
Difficile pensare che l’uomo non avesse premeditato quello scenario e quella reazione, covava talmente tanta rabbia da essersi accanito sul corpo della donna che diceva di amare che l’ha colpita al petto con un coltello numerose volte, prima di scappare e cercare di farla franca. Arrestato dopo il ritrovamento del cadavere, l’uomo ha prima confessato il suo reato, quindi cercato di discolparsi dicendo che si era dovuto difendere da un’aggressione di lei.
Tenuto in carcere in attesa del giudizio del tribunale, l’uomo ha dimostrato di non essersi pentito del suo gesto, scrivendo una lettera ai genitori della donna che aveva ucciso brutalmente in cui, invece di scusarsi, accusava la vittima di essere una donna violenta. L’anno successivo è stato condannato a 15 anni di carcere per omicidio.